IL SUICIDA
Vagò nella periferia della città senza una meta precisa. Assurdo avere una meta in quei momenti. Importante era andare e trovare il modo.
Nulla, non era accaduto nulla. Sapeva che si sarebbe ammazzato, ma non sapeva né come né dove.
Già, non era accaduto nulla.
Camminava strisciando i piedi, con l’impermeabile aperto, il cappello all’indietro e il collo della camicia sbottonato. Lo sguardo vuoto, forse perduto, quasi sorridente, forse ebete. Non vedeva la gente che gli passava accanto e che lo osservava incuriosita. Non vedeva la strada. Non vedeva le case. Solo il vuoto. Un meraviglioso vuoto buio e nello stesso tempo chiaro, limpido, di un futuro evidente.
Fece il ripasso storico della sua vita alla ricerca di una ragione.
“Stronzate. Non c’è alcuna ragione, o meglio, le ragioni sono talmente tante, da auto distruggersi. Ragioni distrutte. – Saltò un cagnetto distratto sul quale quasi inciampò. – Ecco, cadere, sbattere la tempia… un incidente, un impietoso incidente, nonché stupido. Troppo banale.”
La moglie lo aveva accolto come tutte le sere: senza attenzione. Da troppo tempo l’uno non si accorgeva dell’altra. Senza cattiveria però, senza villania, semplicemente si erano distratti e andavano di giorno in giorno perdendosi. Anche per questo voleva uccidersi. O meglio… no, nessun meglio. La ragione vera non c’era e se la cercava, la trovava così banale da quasi pentirsi del proposito e quasi tornare sulla decisione.
E invece no!
Il colore. Maledetto colore. Quel grigio che riempiva le sue tele: opere decadenti, senza aspirazione. Non che fosse un fallito, tutt’altro, ma il grigio copriva anche i prati, anche il sole. Da troppo tempo la percezione della realtà uniforme, stereotipata, scoraggiante, lo teneva lontano dagli altri colori.
Dai giorni del grigio nacque l’ispirazione al suicidio. Sì, suicidio come opera d’arte. Astratta. Il grigio fu l’inizio del rifiuto di qualsiasi logica introspettiva.
“Stronzate.”
“Non è niente, forse sei un po’ depresso… oppure soffri di certo dolore esistenziale tipico degli artisti. – Dolore? Depresso? No, tutt’altro. – Voi esistenzialisti sentite la struttura dell’esistenza come metafisica, risolvendo la metafisica dell’essere nella necessità del problema e capovolgendo… Senti, fai così, quando hai questi momenti… sconfortanti, mi chiami. Vedrai che una chiacchierata ti aiuterà. Anche al telefono. Ok? E non preoccuparti, che chi parla di suicidio poi non si uccide.”
Rise. Gli psicologi sono sempre prevedibili. Come spiegargli il desiderio di uccidersi senza desiderio? A chi raccontare la terribile attrattiva di tale meraviglioso, insano (insano?) gesto? Un gesto che non coinvolgerà nessuno se non l’artefice dell’opera: opera buffa senza scrittura, senza testamento.
“Perché? Cosa gli è passato per la testa? Eppure era sempre così rilassato, così sereno.”
Sciocchi. Alla ricerca continua della razionalità esistenziale. Operazione impossibile ed inutile.
Quando si accorse di essere sul ponte diede uno sguardo all’acqua buia e percepibile del fiume e ancora alla sua vita. Tornò indietro nel tempo e il ricordo gli straniò il cervello, perché non vi trovò raziocinio di quel che stava per accadere e di ciò, pur spaventato, si compiacque. Guardò di nuovo il fiume anzi, lo immaginò. Sapeva finalmente come si sarebbe ucciso. Si sentì di colpo più calmo. Prese il cappello e lo lanciò; vide la chiazza bianca adagiarsi sull’acqua ed ebbe la percezione della distanza dal ponte. Si tolse l’impermeabile e lo piegò ben bene “ordine innanzitutto”. Lo appoggiò al parapetto. Era pronto.
“Non lo faccia, signore. È così bella la vita…” Il vecchietto lo guardò cercando di sorridere. Era un vecchio strano, senza capelli bianchi.
“Anch’io una volta… Poi tutto si risolve.”
Stettero silenziosi ad osservarsi. Immobili, la mano del vecchio di poco protesa, come in un saluto.
Ripensò alle sue parole: “È così bella la vita…”
Cosa fare? Parlargli? Per dirgli cosa? Sì, sono d’accordo, la vita è bella… però… eccetera. “Che palle!”
Prese il vecchietto e lo buttò giù dal ponte.
© Rocco Burtone