CONCERTO IN STALLA
Non ci parve vero d’essere arrivati. Guardammo la costruzione cadente, fatiscente, senza luce, tetra, forse sporca.
“Cos’è questa merda?”
Non che non fossimo abituati alle balere deprimenti, ma questa superava ogni immaginazione.
“Scusi signore, è questa “La Stalla”?”
Il vecchio mi rivolse uno sguardo infastidito e con l’ovvietà del giusto disse:
“No’ tu viòt cui tiei voi?”
Gli sorrisi soddisfatto. Sam mi si avvicinò minaccioso.
“Chi cazzo ha trovato questo letamaio?”
Anche Paolo e Licinio e Wilmo ci raggiunsero.
“…proprio un letamaio. E perché hai accettato?”
Li osservai tra l’ironico e il disgustato.
“Come cazzo facevo a conoscere il posto, con la palla di vetro?”
“Io qui non metto la divisa.”
“E tu la metti lo stesso. Magari sono simpatici.”
”Simpatici e sporchi.”
“Come fai a dire che non hai ancora visto dentro.”
In effetti l’aspetto esterno non incoraggiava a luminose fantasie e solo un miracolo poteva rovesciare la realtà che facilmente tutti immaginavamo. Oltretutto il silenzio persistente ci convinse che lì dentro non c’era nessuno. Bussammo più per puntigliosa dimostrazione di incertezza che per incertezza stessa.
“E adesso? Dove cazzo sono tutti quanti? Vi rendete conto? Sono le sette e quaranta e qui non c’è nessuno.”
Il vecchio osservava fissamente un punto della strada, ma sapevo che seguiva attentamente la scena e mi pareva quasi sorridesse.
“Scusi signore, sa mica dove sono i proprietari?”
“Rivin cumò.”
“Arrivano subito?”
“Cumò.”
“Cumò quando?” replicai spazientito dalla probabile renitenza del vecchio.
“Cumò.” Ripeté soddisfatto ed io mi guardai attorno in cerca di anime vive.
“Cumò può essere anche fra un’ora e noi intanto che facciamo?”
Il vecchio alzò lo sguardo e una porta dell’edificio a fianco della Stalla si schiuse.
“Buongiorno. Mi sa dire dove si trova il padrone della Stalla?”
“Soi iò.”
“Ah bene, noi siamo il gruppo musicale.”
“E siete già qui?”
“Come già? Abbiamo bisogno di più di un’ora per montare la strumentazione.”
“Strumentazione? Ma! Di solito suonano senza niente.”
“Per noi è impossibile, abbiamo tutti strumenti elettronici.”
“O ai capìt. Ancje i microfonos e i amplificadors?”
“Certamente. Ma scusi, non gliel’ha detto l’impresario?”
“L’impresari? Cui, Toni? No, mi à dite dome ch’al procurave la musiche. – Ci osservò preoccupato. – Casso! Veso ancje il furgon.”
Anche noi lo osservammo preoccupati. Si annunciava una serata non proprio edificante. Restammo alcuni istanti in silenzio. Quindi l’uomo estrasse un mazzo di chiavi ed aprì la Stalla.
A dispetto dell’aspetto drammatico dell’esterno, la grande stanza ci si presentò pulita e particolarmente ben arredata con tavoli, sedie e il bancone bar rustici e solidi, nel fondo le mangiatoie (dunque era stata una vera stalla) trasformate in poggia bottiglie e lampade al soffitto ornate da centrini probabilmente fatti a mano. Unica nota stonata, alle pareti teste di cervi e cinghiali.
Cominciammo a scaricare l’amplificazione e in poco più di un’ora fummo pronti. Giacomo (così disse di chiamarsi il proprietario) ci osservò incuriosito per tutta l’operazione.
“Ma avete bisogno di tutto questo… armamentario?” mi chiese preoccupato.
Anch’io lo osservai ancora più preoccupato di lui perché il sesto senso mi diceva che qualcosa non quadrava.
“Se ha problemi per i volumi, non si preoccupi, perché sappiamo suonare anche piano.”
“O ai capìt. Ma Toni non mi aveva parlato… vi manda Toni, vero?”
“Toni? Sì, Antonio. Antonio Fasci.”
“Toni, Toni – ripeté come a convincersi – il cognome non lo so.”
Andammo a cambiarci.
Verso le ventuno cominciò ad entrare la gente.
Quando salimmo sulla pedana avvenne un fatto di difficile spiegazione. Tutti tacquero e ci scrutarono. Anche noi guardammo gli astanti. Una quarantina di persone perlopiù anziane e molte con abiti probabilmente tradizionali. Noi con le divise di foggia moderna, tutte uguali ma di diverso colore: io in bianco, Wilmo verde, Sam rosa, Licinio marrone, Paolo azzurro. Incontrammo i loro sguardi e una percezione di sbagliato, di fuori luogo, di disguido, malinteso, di equivoco si appropriò di noi. Restammo lì alcuni secondi lunghissimi a fissarci.
“Dove cazzo siamo finiti?” bisbigliò Paolo rompendo il silenzio.
Eppure Antonio (Toni?) ci aveva indirizzato in quel luogo.
“Dai, cominciamo.”
“Già, e con cosa?”
Riosservai gli astanti. Non avevano smesso di fissarci. In attesa. Di cosa? Situazione surreale.
“Sigla naturalmente.”
“Ma sei matto? Non li vedi?”
“Sigla ragazzi. Il successo è degli impavidi. Vai Sam, parti Licinio.”
La sigla era Gimme Some Loving in cui, prima dell’attacco dell’Hammond, io presentavo i componenti del gruppo.
“Signore e signori, vecchi e bambini, pubblico amatissimo, ho il piacere di presentarvi i componenti dei Perché…”
Suonammo con gli sguardi a terra. Nessuno di noi ebbe il coraggio di guardare avanti.
Finito il brano d’apertura non avemmo il tempo di riprendere che Giacomo si avvicinò alla pedana con un coltellaccio da macellaio in mano.
“Fruts, steimi a sintì: sono sicuro che avete scherzato. Adesso riprendete a suonare. La musica più bassa e soprattutto… – fece una breve pausa teatrale – tanghi e valzer. Sono stato chiaro?”
lo spirito indomito che regolava la vita del gruppo ci avrebbe senz’altro fatto prendere la decisione di smontare tutto e andare a casa mandando tutti all’inferno. Quel coltellaccio però ci poneva dubbi irrisolvibili. Aveva qualche significato oppure lo teneva in mano perché ne aveva necessità nel lavoro?
Questi sono momenti in cui un musicista rimpiange i rimproveri del genitore. “Smetti di suonare, non è vita sana. Fai sport. Ricorda che il tuo futuro è in banca…” e così di seguito.
“Dai ragazzi, seguitemi.”
“Cosa intendi?”
“Non hai sentito? Tanghi e valzer.”
“Io vado a casa piuttosto che suonare quella merda.” Sam era sempre il più testardo.
“Dai che ci divertiamo lo stesso. Tutto in Do e Sol. Vai col valzer!”
Non avevamo mai suonato quel repertorio, ma improvvisammo alcuni brani che ricordavo a memoria. Anche Paolo alla tastiera ne ricordò altri e fra “Tintine e Tintone” e “La Paloma” riuscimmo ad animare la serata. Infatti la gente cominciò a danzare lanciando urletti di compiacimento. Sapevo però che non avremmo continuato per molto. Potevamo suonarne sette od otto di quei brani. E poi?
Mentre stavamo preparandoci all’attacco dell’ennesima polca si aprì la porta e con fare lesto, quasi di corsa entrarono tre uomini accompagnati da una fisarmonica, un violino e un contrabbasso (anzi, un liron). Ci fu un po’ di trambusto e sentimmo il pubblico applaudire ed esclamare frasi poco edificanti per noi.
“Finalmentri… seso rivàs… e jere ore… dai, scomencjait… a cjase i fruts…”
Giacomo confabulò con i tre e corse verso di noi.
“Allora, cos’è questo casino? Si può sapere chi siete voi e chi vi ha mandato qui?”
Ogni volta si rivolgeva a me. Mentre cercavo di capirci qualcosa si avvicinò il fisarmonicista.
“Ciao ragazzi, che casino avete combinato?”
Siccome mi sorrideva mi sentii rincuorato. Finalmente un essere umano.
“Non capisco, cosa vuoi dire?”
“Voglio dire che qui dovremmo suonare noi.”
Sentivo che c’era del vero in quanto stava dicendo.
“Come voi… noi abbiamo un contratto scritto.”
“O ai capìt, ma qui ci ha mandato Toni e voi… chi vi manda?”
“Anche noi… – Di colpo si accese la lampadina che custodivo in testa. – Toni… Antonio Fasci?”
“E cui isal Antonio Fasci. A noi ci manda Toni, il re dalla Carnia.”
Lo sapevo, lo presentivo, il mio sesto senso non sbaglia mai.
Scesi dalla pedana ed estrassi il contratto. Il fisarmonicista scoppiò a ridere.
“Alla Stalla di Forni di Sopra. Qui siamo a Forni Avoltri. Sveglia ragazzo. Quella è una sala per musica giovane.” E continuò impietosamente a ridere. Tutti ascoltarono le parole e un’ilarità generale colse la sala che di colpo si rianimò e sembrava di essere ad una festa. Non ebbi il coraggio di guardare gli altri del gruppo.
© Rocco Burtone