CANTI MIGRANTI
Giunse un torpedone sgangherato che fermò rumorosamente fischiando, come fosse una nave. Nel silenzio del porto il rumore riverberò fin sul mare piatto e chiotto di mistero. Ne discesero un numeroso gruppo di straccioni (così parvero ai pochi presenti), che estrassero dalle fiancate i bagagli. Finita l’operazione la corriera si allontanò e l’ammasso grigio di anime ristette in attesa muta e assorta.
Non passarono due minuti che un altro torpedone scaricò una varietà di grigio più scura ancora, una macchia da potersi definire nera. Questi altri senz’altro più rumorosi, comunque contenuti. Terminata l’attività di scarico, anch’essi sostarono in silenzio.
I rumori stridenti e frammentari del porto echeggiavano come discosti, remoti, con rifrazioni che andavano a frangersi sull’orizzonte minaccioso di nubi e rari guizzi di luci palesanti l’alba.
I due gruppi di migranti si fronteggiavano senza interesse, scrutandosi indolenti e sonnacchiosi in attesa degli imbarchi. Qualcuno sedette sulle valigie, altri iniziarono a conversare e i bambini giocarono a rincorrersi inseguiti dagli sguardi attenti e indulgenti degli adulti. Poche le parole, solo il tacere dell’attesa.
Come per magia dal primo gruppo si levò un canto incomprensibile agli altri. Cominciò un uomo alto che, alzando una mano, invitò i suoi conterranei a seguirlo. Parole lente, dal vago significato di preghiera, parole che non ebbero bisogno di traduzione tanto erano intuibili:
“Se tu vens cà sù ta’ cretis,
là che lôr mi àn soterât,
al è un splàz plen di stelutis:
dal miò sanc ‘l è stât bagnât…”
Cantarono composti e fermi con gli occhi bassi che rialzarono solo alla fine incontrando gli sguardi sorridenti degli altri.
Breve fu il silenzio, finché un altro canto si levò dal secondo gruppo, e anche questo parve a tutti una preghiera, forse ancora più intensa della prima, forse triste, ma che l’impegno e lo slancio del coro resero quasi festoso:
“Vitti ‘na crozza supra ‘nu cannuni,
fui curiusu e ci vozi spiari,
idda m’arrispunniu cu gran duluri,
muriri senza toccu di campani…”
Alla fine ci fu anche un battimani che coinvolse tutti e qualcuno aprì incomprensibili dissertazioni sulla musica dall’una e dall’altra parte.
Poi una giovane donna dall’aria timida e severa attraversò la banchina e senza parole offrì una piccola cesta di limoni ad una vecchia che per accettarla volle il conforto dei compagni. Allora un giovane aprì la valigia e ne estrasse una bottiglia di vino che andò a consegnare.
“Questo vino buono, fatto in casa… in casa, fatto dalla mia famiglia.”
Non seppe se avevano inteso, comunque le mani accolsero il dono e strinsero quelle del giovane. Ci fu un via vai di doni breve e laconico, quasi fossero tutti complici di una stentata rivoluzione culturale.
Un bambino sollevò lo sguardo al genitore:
“Pai, in ce lenghe cjàntino?”
L’uomo sorrise incerto.
“No’ ài capît. ‘O crôt che a’ son taliàns…”
“Taliàns? E parcè no ài capît nùje?”
“E tu? Tu as cjantât par talian? E lôr an capît lis tôs peràules?”
Il piccolo considerò quanto detto dal padre, ma non ne fu soddisfatto, comunque riosservò il gruppo e valutò quanto fossero brutti, come fossero vestiti male e avessero qualcosa di inquietante nei volti… al bambino parvero facce di galera, soprattutto i maschi, con le barbe non rasate e quei coltelli che estraevano per tagliare il pane. Le femmine invece erano solo più… scure (e qualcuna aveva anche la barba) e i bambini più chiassosi. Ma simpatici. Tanto che avrebbe voluto giocarci insieme, ma qualcosa glielo impedì. Sentì che non erano come lui, che forse avrebbe avuto difficoltà a… No, non seppe rispondersi, ma capì che in loro qualcosa non andava.
“Pai, a’ son bruts e plui sporcs di nô.”
L’uomo scrutò con più attenzione la massa umana di fronte.
“No pizzul, a’ son dome pùars.”
Il bambino sorrise e come rivolto al mare si dichiarò felice di non appartenere a quella gente.
“Pai, ‘o sin fortunâs.”
© Rocco Burtone